Il suo nome nella Verona di oggi è conteso. Da un lato strattonato dalla destra estrema che vuole strumentalizzare il suo gesto con l’ormai noto e controverso evento di sabato (che ora non si sa bene dove si terrà vista la rinuncia degli Stimmatini). Dall’altro omaggiato con un’iniziativa in anticipo, invece, a sinistra “per ristabilire la verità storica sulla Primavera di Praga”. Ma chi è stato, davvero, lo studente ventenne che, il 16 gennaio del 1969, si è dato fuoco per protesta contro l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia?
Quel giorno di gennaio, sceglie una piazza viva, tra le più trafficate del centro di Praga, quella di San Venceslao, per la sua morte, icona storica di un ideale perpetuo. Imbuca tre lettere, compra dei secchi e li riempie di benzina, mentre fa ciò Jan sa che non compirà mai ventun anni. Vicino alla fontana ai piedi del Museo Nazionale si toglie il cappotto, si cosparge di benzina e si dà fuoco. Poi inizia a correre come una “torcia umana” sotto gli occhi sconvolti dei passanti, alcuni, dopo che cade a terra urtato da un tram, lo soccorrono, cercando di spegnere le fiamme.

Nella tasca del suo cappotto viene trovata una lettera (che fu spedita in tre copie al leader studentesco di Praga, all’assemblea della Facoltà di lettere e filosofia e ad un compagnio di studi), il messaggio è chiaro: «La richiesta principale è l’abolizione della censura: se questa richiesta non sarà rispettata entro cinque giorni, vale a dire entro il 21 gennaio 1969, e se la gente non dimostrerà appoggio alla nostra azione, altre torce umane mi seguiranno». La firma lascia ancora meno dubbi «la Torcia umana n°1».
Secondo le indagini dell’epoca e stando a quanto ha riferito la polizia, non è mai esistito nessun gruppo chiamato “torce umane”. Il suo gesto, però, diede il là ad un’ondata di emulazione che costruì un gruppo, non organizzato, di “torce umane”: sono decine, in quel periodo, i suicidi tentati in Cecoslovacchia come negli altri paesi del Patto di Varsavia, cinque manifestanti muoiono così, silenziati dalle voci ufficiali del regime.
Come ha scritto il Sole 24 Ore il suo martirio è sostanzialmente diverso, agli antipodi, dal terrorismo collettivo e individuale degli uomini-bomba, perché «il suo messaggio è: il mio corpo è più forte del tuo potere, e io mi riprendo la mia libertà dimostrando che il tuo totalitarismo è fragile».

A raccogliere l’eredità del suo sacrificio di libertà, rivoluzionario perché dalla portata estrema e definitiva, c’è Jan Zajic, che il 25 febbraio 1969 si dà fuoco ma lo vedono in pochi perché stremato non riesce a raggiungere la piazza del martirio di Palach. Qualche tempo prima, il 23 gennaio, appena sedicenne, Sandor Buer ripete le gesta tragiche a Budapest contro la presenza dell’esercito sovietico nel suo paese. Poi ancora Evzen Plocek, Ilja Aronovič Rips (che non muore ma viene poi internato in una clinica psichiatrica). Completa l’escalation di martiri Romas Kalanta, 19 anni, muore per la libertà della sua Lituania. Lascia un pezzo di carta, volontario epitaffio collettivo di quei ragazzi: «Accusate il regime totalitario della mia morte».
Palach muore il 19 gennaio. Riesce a vedere per l’ultima volta la madre e il fratello (che saranno poi internati in un ospedale psichiatrico). Troneggia ormai da anni nella piazza dove tutto è avvenuto la scultura (quella della foto di apertura di questo articolo) realizzata con il calco che gli ha fatto quella notte lo scultore Olbram Zoubek. Si cerca di imbrattare il suo ricordo, il regime vuole farlo passare come un fanatico, attribuendogli patologie mentali surreali. Lui e il suo gesto, però, si propagano, diventano la prima riga di un discorso ampio impossibile da zittire: proteste, manifestazioni, scioperi della fame contro la censura senza risparmiare critiche anche al segretario del Partito Comunista Alexander Dubcek per gli esiti opposti che aveva avuto il suo “socialismo dal volto umano”, e per quella Primavera ormai appassita e strozzata dall’occupazione degli eserciti.
Meglio non chiedersi cosa direbbe quel ventenne indomito oggi, se dovesse vedere come è, infantilmente, contesa l’etimologia del suo gesto. Per chi vuole ascoltarlo lontano da ideologie di comodo, il suo atto grida ancora, 50 anni dopo, quella libertà che scalza ogni estremismo, come fece, al tempo, con ogni totalitarismo.