Il burnout sul lavoro è un fenomeno tipico della società moderna in cui viviamo, e consiste in una forma di esaurimento emotivo che porta a stress e stati d’ansia. Colpisce principalmente le categorie di lavoratori che operano nel settore degli “aiuti”, come operatori sanitari, assistenti sociali ed educatori, ma con il tempo si è espansa a settori più ampi. Questo fenomeno è aumentato esponenzialmente quest’anno, soprattutto a causa dello smart working.
Uno studio della NBER (Natural Bureau of Economical Research) ha raccolto oltre tre milioni di dipendenti di circa 16mila aziende di diverse parti del mondo, confrontando il loro comportamento prima e dopo il lockdown, in otto settimane lavorative. I risultati hanno evidenziato una media di 48 minuti di lavoro in più al giorno, un aumento di riunioni del 13% e almeno una mail in più, solitamente ai colleghi, rispetto al periodo pre-Covid. «Le persone hanno riadattato la loro tabella di marcia», ha commentato Jeff Polzer, docente di Harvard e tra i cinque co-autori dello studio.

Secondo un altro studio, diretto da FlexJobs e Mental Health America (MHA), il 75% dei mille e 500 soggetti coinvolti ha sperimentato il burnout al lavoro, di cui il 40% durante i mesi del lockdown. Il report evidenzia anche come sia aumentato il numero di dipendenti che manifesta un abbassamento della salute mentale dei dipendenti (da 5% a 18%); il 42% di essi inoltre ha espresso un livello di stress “alto” e il 47% “molto alto”, sostenendo che sul posto di lavoro ricevevano più supporto emotivo rispetto all’isolamento forzato dallo smartworking.
Dati che allarmano anche in Italia: uno studio di LinkedIn, che ha coinvolto oltre duemila lavoratori italiani, ha riportato che tra gli intervistati, il 46% ha affermato di sentirsi più ansioso e stressato per il proprio lavoro rispetto a prima, ma anche di lavorare di più. Il 48% degli intervistati ha ammesso di lavorare almeno un’ora in più al giorno – il che equivale ad almeno venti ore (quasi tre giorni) in più al mese.
Secondo Laura Parolin, Vicepresidente dell’Ordine degli Psicologi, «il lavoro da casa e l’impossibilità di uscire ci hanno obbligati a una ridefinizione repentina degli equilibri tra lavoro, famiglia e tempo libero. L’organizzazione del lavoro prima della pandemia consentiva di evadere e prendere le distanze dagli altri ambienti di vita, una possibilità che ora manca, costringendoci al confronto costante con l’isolamento o alle relazioni con i conviventi, spesso con la difficoltà di definire un soddisfacente work-life balance. Le aziende dovranno prevedere azioni di welfare aziendale specifiche (sportelli, voucher, convenzioni) per il sostegno psicologico ai dipendenti in modo da assicurare che il loro benessere sia tutelato, e i lavoratori non dovranno temere di far riferimento ai professionisti coinvolti».