È impegnato come reporter in alcune delle zone di conflitto più calde del nostro presente. Mattia Cacciatori, di San Giovanni Lupatoto, si racconta in questa intervista sottolineando tutte le contraddizioni di un lavoro che lo porta sempre troppo vicino al dramma umano della guerra.
Afferra con lo sguardo un futuro che forse non le è permesso. Gaza, dicembre 2012, una sconosciuta con il velo stretto in testa e la giacca che si lascia aprire dal vento, in piedi tra i calcinacci di un molo distrutto, guarda il mare. Mattia Cacciatori, ventisei anni, prende la macchina fotografica e scatta a raffica, sperando con tremore, di aver colto quella bellezza tragica. Il fotoreporter veronese, di San Giovanni Lupatoto, che sarà coinvolto nel progetto legato ad Expo2015 proprio nell’ultima tappa del viaggio, in giro per il mondo alla ricerca dei suoi sapori, colleziona scatti perfetti. È stato in Mongolia, in Tanzania, in Ecuador, in Israele, nella tormentata Gaza, nei campi profughi giordani, in Serbia, in Turchia dove è stato arrestato e ha rischiato da uno a sette anni di carcere per aver filmato le proteste a Gezi Park, nel luglio 2013. Noi, prima che ripartisse per qualche nuovo progetto, l’abbiamo intercettato e gli abbiamo chiesto di raccontarci i tempi e i modi del suo mestiere difficile e necessario.
La tua fotografia cerca i conflitti e le disperazioni, e li racconta. Come si fa a ritrarre il dolore degli altri senza violarlo?
Tutte le persone che fotografo sanno il mio nome perché prima di scattare ho vissuto con loro. Cerco di passare sempre alcune settimane in un posto, di stringere rapporti, di ascoltare la gente prima di fotografarla. Sono tante le volte in cui non scatto ma parlo con loro. È questo, penso, il mio primo compito: essere come loro. Non certo allo stesso modo perché loro, sotto il cielo di bombe che condividiamo, hanno famiglie e affetti dietro l’angolo e nell’edificio spezzato dall’esplosione tengono il resto del loro divano e il ricordo delle persone che hanno perso, io no. Questa è la differenza.
Il rischio intero e vero lo vivi però anche tu. La cronaca di oggi è un camposanto di morti cruente per molti fotoreporter, non solo quelle oltraggiate dalla violenza filmata dell’Isis, ma anche quelle di italiani come Andy Rocchelli, in Ucraina e Simone Camilli, a Gaza.
Certo, ho avuto paura in Palestina quando gli spari li sentivo vicini. E ne ho avuta quando la polizia turca mi ha sbattuto contro il muro, durante gli scontri di piazza Taksim. Le gambe tremano sempre, il fumo non smette di entrarti nelle narici ma se hai paura non fai niente.
È mia mamma la più coraggiosa tra i due e il suo coraggio lo dimostra quando mi dice: “Vai perché devi andare”. Perché lo sa che io ho bisogno di questo e che forse ne ha bisogno anche il mondo.
Vivi in contesti pericolosi, vedi drammi e morti e poi torni a casa, nelle strade pulite della tua città. Non ti senti “schizofrenico”?
Bisogna aprire la propria porta per raccontare una storia se la chiudi o la tieni socchiusa non funziona. Se piangi fai le foto migliori. E io soffro sempre mentre scatto. Poi torno a casa, qui, tra le cose normali, e me li vedo pure la notte i ritratti che ho scattato, li scelgo e li ordino per narrare una storia. Raccontare è la mia rielaborazione del lutto, perché in un viaggio così una parte di me muore sempre. E comunque sì, sono schizofrenico, per forza.
Come si sceglie una storia da inseguire, insomma, come nascono i tuoi reportage?
Ogni storia viene fuori un po’ a caso, mi faccio delle domande e poi parto e quando sono fortunato la foto mi dà la risposta che ero andato a cercare. Ma la condizione necessaria è che ogni storia mi deve toccare, sennò c’è il rischio di scattare foto da turista, come facevo prima dell’Ecuador (reportage “Intinan” 2011, ndr). È lì che ho capito che le storie si raccontano spalla contro spalla, sollevando sacchi di liuta e ascoltando le parole degli abitanti che guardano il loro mondo mangiato da un capitalismo inarrestabile. In Tanzania, invece, scrutando le persone mi sono accorto che le loro mani erano abrase, rovinate dalla fatica e dal lavoro mentre le mie erano senza calli, pulite, mani di ragazzo. Allora ho fatto un reportage sulle mani, sulle loro mani che fanno.
Una vita sempre in viaggio. Ci sono rinunce grandi che stanno dietro a questo lavoro. Ti sembra che ne valga sempre la pena?
In cinque anni nessuna foto che ho fatto mi ha mai ripagato davvero a livello economico. Il mondo del giornalismo, soprattutto di questo tipo, è un settore difficile. Ma il riscontro non può e non deve essere solo economico. Io vivo per raccontare storie tristi e felici. Più gente colpisco più ho raggiunto il mio scopo. Perché lo faccio? Perché penso sia importante fotografare le guerre del presente per far capire che sono le stesse del passato. Sono tutte lotte estreme per le risorse: ieri era il Canale di Suez oggi è la Siria dove passano i gasdotti di mezza Europa. Bisogna rendersi conto che si lanciano bombe nel mondo anche perché ci sia la luce, ogni sera, in una stradina con i lampioni, come la mia.