Di diritti negati e scarpe senza lacci

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Cronaca dal campo profughi di Velika Kladuša, in Bosnia, dove centinaia di persone tentano ogni giorno di passare il confine con la Croazia. One Bridge To Idomeni, associazione veronese nata con l’obiettivo di aiutare i migranti che affollano la rotta balcanica, negli ultimi mesi è stata sul luogo per dare una mano.

Nel lessico brutale forgiato da mesi di cammino, dagli accampamenti precari, dalla coesistenza forzata di popoli e identità, ha finito per chiamarsi game, gioco, il tentativo di attraversare il confine con la Croazia delle migliaia di profughi ammassati, in questi mesi, in Bosnia Erzegovina. Infilano i pochi averi che si trascinano dalle terre natali in uno zaino, si allacciano le scarpe che con qualche fortuna hanno recuperato e partono, a piedi, di notte; destinazione: la terra promessa, l’Europa. Dicono “I go to game”, come un’esortazione, scaramantica il più possibile, ironica quanto basta: perché quello che li aspetta oltre i boschi della Bosnia non è affatto un gioco, ma un muro di ostilità e di diritti negati.

Una donna e suo marito, iracheni, non si fanno remore a raccontare di come la polizia croata li abbia fermati, derubati e rispediti indietro: lei è incinta, mi spiega che le fa ancora male la schiena, dove l’hanno colpita. Poi mi mostrano i telefoni con gli schermi in frantumi, sconsolati soprattutto perché non hanno più modo di contattare le famiglie rimaste in patria e fargli sapere che stanno bene, che il game non l’hanno vinto, non ancora, ma ci riproveranno. Anche loro fanno parte di quell’umanità ignorata da quest’Europa distratta, che sembra non vedere le migliaia di profughi che dall’inizio dell’anno si stanno accalcando ai bordi della Bosnia, la pancia molle del continente europeo che forse credeva di essersi già lasciata alle spalle la situazione del 2015, quando un milione e rotti erano arrivati, speranzosi, sulle coste greche. E se fino a un paio di anni fa si parlava di Idomeni, di Lesbo, di Atene o di Belgrado, oggi sono i campi profughi della Bosnia i protagonisti della nuova emergenza. Le hanno stimate in oltre 2000 le persone divise tra i campi di accoglienza sparpagliati tra Sarajevo, Bihac e Velika Kladuša, ma è un numero che cresce e cambia ogni giorno. Il ministro della sicurezza bosniaco Dragan Mektic ha dichiarato che sono più di 5.300 le persone entrate nel Paese dall’inizio del 2018, arrivando dalla Serbia e dal Montenegro. All’inizio di giugno, la Commissione Europea ha stanziato fondi per 1,5 milioni di euro per la Bosnia Erzegovina, a cui andranno ad aggiungersi altri 6 milioni promessi nelle ultime settimane: la speranza è che grazie a questo aiuto finanziario possano essere costruite strutture adeguate per l’accoglienza dei migranti.

Siriani, afghani, curdi, iracheni, ma anche nordafricani, e poi bengalesi, palestinesi, pakistani: le identità disperate che scappano da guerre, oppressioni, povertà indicibili si ritrovano qui, a tentare la fortuna verso le mete classiche dell’area Schengen: Germania, Francia, Italia, e poi il Nord Europa. «La settimana scorsa ho tentato il game, ma la polizia croata mi ha rimandato indietro», mi racconta Bijay, ventinovenne bengalese che sogna Parigi, dove lo aspetta il fratello maggiore e, forse, un lavoro come cameriere in qualche bistrot. «Tra qualche giorno voglio riprovarci, spero andrà meglio». Anche lui, dopo il respingimento dalla Croazia, è ri-approdato al campo di Velika Kladuša, senza soldi, senza telefono, senza i lacci delle scarpe: «Glieli tagliano, così non possono più correre», mi ha spiegato poi uno dei volontari che operano nel campo. Ed è proprio qui, ai piedi di questa cittadina bosniaca dal cuore musulmano, vicinissima al confine con la Croazia, che dallo scorso aprile è nata una tendopoli, su un terreno privato ma in accordo con l’amministrazione locale. Al momento ci soggiornano circa un centinaio di persone, ma i numeri sono difficili da precisare: si tratta, infatti, di un campo di passaggio, sfruttato dai più per la sua vicinanza con il confine europeo e solo per pochi giorni. Chi cerca un riparo più stabile si rivolge, invece, al campo di Bihac, a circa un’ora di distanza da qui.

A gestire il campo di Velika Kladuša sono diverse anime del volontariato locale e internazionale: i primi a intervenire sono stati un gruppo di ragazzi provenienti da tutta Europa che si riunisce sotto il nome di SOS Kladuša. A loro spetta la gestione delle tende, della distribuzione di vestiti usati e l’allestimento delle docce, che hanno trovato il loro spazio nello scheletro di un ex macello alle porte del campo. È presente anche Medici senza Frontiere il cui personale, tre mattine a settimana, fornisce assistenza medica a chi la necessita. A dare man forte ci sono anche l’ong spagnola No Name Kitchen e l’associazione italiana One Bridge To Idomeni, nata nel marzo del 2016 in terra veronese con l’obiettivo di aiutare i migranti “intrappolati” sulla famigerata rotta balcanica. Come Samir, quattordicenne iracheno che con la sua famiglia sta cercando di raggiungere la Germania attraversando le tappe classiche di questa odissea: la Turchia, poi la Grecia, la Macedonia, la Serbia, la Bosnia come tappa obbligata prima del salto al di là dei confini europei. «È un anno che viaggiamo, un anno che non vado a scuola», mi spiega in un inglese sorprendente, mentre si aggiusta il ciuffo ribelle. «È un anno che non guardo la tv», aggiunge sorridendo, come se si trattasse di una cosa superflua e non, piuttosto, della prova inconfutabile di una normalità negata. Il campo di Velika Kladuša resiste ancora, ma resta il punto interrogativo sui prossimi mesi: l’inverno bosniaco rischia di essere una prova dura da superare per molti degli attuali abitanti del campo. La maggior parte di loro, in ogni caso, sta già facendo ordine tra le proprie cose, preparandosi per il game. Sperando che, al netto dei muri di ostilità, la prossima volta sia quella buona.

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