Per l’Unione europea la conciliazione donne-lavoro è un diritto ormai dal 2016, quando venne approvata a Strasburgo la Risoluzione «per la creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all’equilibrio tra vita privata e vita professionale» ma in Italia come è stata recepita? E soprattutto, aldilà di false retoriche, in che misura è attuabile e facilita veramente il lavoro delle donne?
SONO MOLTE LE IMPRESE, solitamente quelle con un numero di dipendenti superiori a venti, che si fregiano di sistemi a tutela del work-life balance: il part-time, la banca ora, il lavoro flessibile, i congedi (ma sono poi veramente validi e usati senza remore?). Spesso sono solo belle parole per aumentare la cosi tanto agognata “reputation aziendale”, tuttavia, alcuni casi di vero successo in Italia ci sono e il documentario della giornalista Alessia Bottone sulla Conciliazione donne e lavoro ne evidenzia il valore. Le interessanti novità messe a disposizione del dipendente e, che emergono nel video-doc, sono sicuramente il family audit che, citiamo testualmente, «è uno strumento che promuove un cambiamento culturale e organizzativo e testimonia l’impegno dell’azienda a rispettare il tema di conciliazione vita-lavoro attraverso l’assegnazione di una certificazione ad hoc e, del cosiddetto “maggiordomo aziendale”, cioè colui che sbriga le piccole faccende che, per chi lavora, diventano anche grossi problemi». L’azienda può fare molto e abbattere pregiudizi ma sono le politiche sociali dello Stato che devono dare un segno di cambiamento, soprattutto se dall’Europa arriva un messaggio cosi chiaro e forte a tutela del lavoro al femminile: si superino le disuguaglianze salariali e di valutazione fra uomo e donna e si favorisca un modello culturale di lavoro diverso, in cui non solo le donne possono chiedere part-time o aspettative ma anche gli uomini.
VERRÀ IL MOMENTO in cui le donne non verranno ritenute le tenutarie esclusive di tutte quelle mansioni di accudimento di cui una famiglia ha bisogno? Le fasce femminili con età comprese fra i 40 e 50 anni, oggi, sono chiamate generazioni sandwich perché sono schiacciate tra le incombenze della loro quotidianità di donna, mamma, moglie e quelle legate alla cura e gestione dei genitori anziani. Il problema più grande è che, rispetto ad altri Paesi del Nord, le donne al lavoro, per fare carriera, devono seguire un modello di valori squisitamente maschili, snaturandosi. Solo mostrandosi disponibili a trascorrere ore e ore al lavoro, garantendo reperibilità costante (anche quando si hanno figli piccoli da assistere) arriveranno avanzamenti di livello. Il modello è rimasto quello degli anni Settanta, delle lotte sindacali anche se il mondo è cambiato, radicalmente. L’efficienza non può e non deve essere misurata in base alla presenza oraria di un lavoratore. Se poi andiamo più a fondo e analizziamo la situazione delle madri lavoratrici ci troveremo davanti ad un panorama desolante. La cosa appare assurda perché chiunque è consapevole che l’Italia è profondamente invecchiata e che i figli, i nuovi nati, dovrebbero essere tutelati come il nostro bene più prezioso. Alcuni datori di lavoro, non tutti per fortuna, ma, in primis, lo Stato non la pensano così. Come se la maternità in sé fosse cosa semplice, poi. Avere un figlio non è solo felicità. Una donna è stremata, si passano fasi delicate in cui è estremamente necessaria anche la figura paterna. Il papà ha il dovere di aiutare la mamma che vuole essere confortata, protetta in questa sua nuova identità e dimensione. Una donna non deve essere lasciata sola e dovrebbe poter contare su strumenti sociali atti ad assisterla. «Il welfare italiano non aiuta le donne che lavorano a far nascere e crescere i figli. E nemmeno le aiuta a trovare e a mantenere un lavoro. E non basta. Se un lavoro le donne ce l’hanno, rischiano di scoppiare sotto la pressione eccessiva che lavoro e famiglia sommati sulle loro spalle determinano» (La Stampa). Una volta rientrata al lavoro la donna è sicuramente cambiata ma non le sue capacità: non si sono azzerate, anzi, sono notevolmente aumentate. Si diventa più empatiche, più pazienti, più problem solver. E invece che succede? Una madre lavoratrice è spesso costretta a lasciare il lavoro. I dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro sono tristemente chiari, «le dimissioni volontarie dopo aver avuto un figlio, sono in crescita: 29.879 madri hanno lasciato il lavoro l’anno scorso, ma solo 5.261 lo hanno fatto per passaggio ad altra azienda, mentre 24.618 per la difficoltà di conciliare la cura del bambino e il lavoro stesso (si parla di lavoratrici dipendenti)».

FARE CARRIERA ED ESSERE MADRE sembra impossibile, anzi lo è. Oltre alla cultura radicata, alla totale assenza di servizi e relativi problemi di costi da sostenere, si aggiunge anche la parte emotiva. Le madri oggigiorno vivono un dissidio interiore. Si chiedono a cosa serva mettere al mondo i figli se poi non si ha la possibilità di seguirli e di stare con loro. Le più fortunate delegano ai nonni, le altre a babysitter o ad altre strutture. Ricorderete quella lettera al giornalista Beppe Severgnini, in cui una mamma diceva di essere esausta, di non farcela più, perché non si sentiva nè una brava lavoratrice nè una brava madre. Al lavoro doveva costantemente dimostrare più degli altri per essere “considerata” e, nonostante un part-time, non era mai così serena con i propri figli perché non si dedicava come avrebbe voluto o sperato. Anche il part-time, utilizzato prevalentemente dalle donne e quasi mai dagli uomini, è un’arma a doppio taglio. Di fatto costringe ad una sorta di dimensionamento o comunque a rinunciare a dei ruoli per i quali, magari in passato, ci si era spese moltissimo e con fatica. Soluzione per la carriera? Uno dei due genitori a casa o una baby-sitter a tempo pieno … ma tutto questo ha veramente senso? Pagare una persona che faccia da mamma ai tuoi figli perché tu non ci sei? Queste sono domande ingiuste da porsi. Quante politiche per la famiglia potremmo spudoratamente copiare da altri Stati europei ed emanciparci da logiche reazionarie? Il problema è che di fondo, non c’è alcuna volontà di cambiamento.